La zootecnia da latte si batte contro l'antibiotico-resistenza

L’antibiotico-resistenza limita le possibilità dei veterinari di curare patologie comuni quali la mastite

Salute animale

La zootecnia da latte si batte contro l'antibiotico-resistenza

In che modo gli allevatori di vacche da latte possono restituire efficacia agli antimicrobici? Lo spiega Luigi Bertocchi dell’Izs della Lombardia e dell’Emilia Romagna

Un record da perdere al più presto. Questo l’incipit dell’articolo pubblicato lo scorso 19 novembre su “la Repubblica”, che riferiva come l’Italia risultasse il primo Paese in Europa per numero di individui morti a causa della resistenza agli antibiotici sviluppata da molti batteri patogeni. “Dei 33.000 decessi che avvengono nei Paesi Ue ogni anno per infezioni causate da batteri resistenti agli antibiotici – precisava il quotidiano, riferendosi ai dati diramati dall’Istituto superiore di sanità – oltre 10.000 si registrano nel nostro Paese”.
“Gli ultimi dati disponibili – commentava nello stesso articolo Annalisa Pantosti, responsabile della Sorveglianza antibiotico-resistenza dell’ISS – mostrano che i livelli di antibiotico-resistenza e di multi-resistenza delle specie batteriche sotto sorveglianza sono ancora molto alti, nonostante gli sforzi notevoli messi in campo finora, come la promozione di un uso appropriato degli antibiotici e di interventi per il controllo delle infezioni nelle strutture di assistenza sanitaria. In questo contesto, il Piano Nazionale di Contrasto dell’Antibiotico-Resistenza (PNCAR) 2017-2020 rappresenta un’occasione per migliorare e rendere più incisive le attività di contrasto del fenomeno a livello nazionale, regionale e locale”.
Oggi, per effetto del Coronavirus, il tema del contrasto alle antibiotico-resistenze non è più al vertice delle preoccupazioni dei sanitari, ma non per questo è stato dimenticato. Ne parliamo con Luigi Bertocchi, dirigente veterinario dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna, che in qualità di esperto di mastiti ha seguito anche lo sviluppo delle antibiotico-resistenze nei patogeni del bovino.

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Luigi Bertocchi lavora presso la sede centrale dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna

Dottor Bertocchi, prima dell’emergenza Coronavirus le infezioni dell’Uomo da germi antibiotico-resistenti erano considerate il principale problema di sanità pubblica a livello mondiale. Qual è attualmente la situazione in Italia di queste infezioni?
“Per quanto riguarda la medicina umana non spetta a me dirlo, comunque nel nostro Paese le segnalazioni provenienti dal mondo ospedaliero e dai medici di base sono tuttora all’ordine del giorno. Venendo alle antibiotico-resistenze nel mondo animale, si tratta di un problema importante, che limita le possibilità di cura dei veterinari di fronte a patologie comuni quali ad esempio una mastite, una metrite o un’infezione podale, tanto per riferirci al comparto della vacca da latte. Dunque con o senza Coronavirus il problema dell’antibiotico-resistenza c’è, rimane e bisogna contrastarlo. Anche perché dal punto di vista epidemiologico i batteri resistenti agli antibiotici possono rappresentare un problema potenzialmente simile a quello che stiamo vivendo per il Coronavirus: agenti infettivi contro cui non abbiamo terapie efficaci per limitarne la diffusione e preservare la salute animale. Ed è decisamente meglio cercare di porre un freno al problema adesso, piuttosto che diventi un’altra grave emergenza”.
 

Fionde, non cannoni

Ma quali sono le reali responsabilità del mondo zootecnico nella diffusione dei batteri antibiotico-resistenti?
“Voglio essere chiaro, non è più possibile asserire che nel suo insieme il comparto zootecnico non sia corresponsabile di questo fenomeno. La correlazione tra batteri antibiotico-resistenti nell’uomo e batteri antibiotico-resistenti negli animali c’è ed è innegabile. Difficile, però, attribuire e pesare la responsabilità della medicina umana e di quella veterinaria in ogni singolo settore zootecnico. In alcuni casi gli allevamenti sono responsabili perché viene fatto un uso di elevate quantità di antibiotici, in altri casi il ricorso a questa tipologia di farmaci è complessivamente moderato, ma non sempre adeguato alle circostanze: si usano molecole complesse e molto potenti quando basterebbe utilizzare antibiotici di base, in altre parole si usano i cannoni per abbattere le mosche. Ecco, la nostra bovinicoltura da latte appartiene solitamente a questa seconda categoria. Per cui in sostanza è necessario un uso più attento dell’antibiotico: in tema, ad esempio, di cura delle mastiti, basterebbe un ritorno agli antibiotici più semplici come la penicillina. Torniamo alla fionda, così i cannoni, ovvero le cefalosporine, quando servono funzioneranno bene: questo è il tema”.

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È dimostrato che quando la terapia delle mastiti in lattazione viene fatta solo sulla base della sintomatologia e in assenza di esame colturale con relativo antibiogramma, il 50% degli animali viene trattato inutilmente

In che modo gli allevatori di vacche da latte possono quindi dare un contributo nella lotta alle antibiotico-resistenze?
“In primo luogo diminuendo il ricorso agli antibiotici. A mio parere, nella media gli allevamenti da latte italiani potrebbero avere le stesse performance con il 30-50% di antibiotici in meno. Un’opinione personale che però è suffragata anche da alcune ricerche e dall’esperienza di campo. Più nel dettaglio, nelle nostre stalle da latte le cose da fare sono sostanzialmente due: aumentare i livelli di benessere animale e di biosicurezza, perché migliorare il benessere animale significa aumentare la capacità delle bovine di resistere alle infezioni, e incrementare i livelli di biosicurezza vuol dire impedire la diffusione di nuove infezioni. Secondo aspetto, occorre riformulare le modalità di impiego degli antibiotici contro le mastiti, visto che nelle stalle da latte il 70% degli antibiotici è indirizzato al controllo di queste infezioni. A questo scopo le parole d’ordine sono due, asciutta selettiva e terapia mirata. In entrambi i casi l’allevatore deve interpellare il proprio veterinario e stabilire insieme a lui il da farsi, sia sul fronte della prevenzione in asciutta che della terapia delle forme cliniche in lattazione. Ma attenzione, è prioritario lavorare su benessere animale e biosicurezza in azienda, altrimenti l’asciutta selettiva e la terapia selettiva falliscono”.
 

Terapia selettiva

L’uso dei test on farm per la diagnosi eziologica delle mastiti cliniche si sta via via diffondendo negli allevamenti italiani. Per quali tipi di batteri la terapia antibiotica è necessaria e in quali casi è invece sconsigliata?
“Una premessa: è ampiamente dimostrato che quando la terapia delle mastiti in lattazione viene fatta solo sulla base della sintomatologia e in assenza di esame colturale con relativo antibiogramma, il 50% degli animali viene trattato inutilmente. Per cui si può dire che oggi, grazie ai test on farm realizzati sotto la supervisione del veterinario, viene identificato qual è quel 50% di soggetti da trattare. Venendo alle tipologie di mastidogeni, in linea di massima si può dire che gli Streptococchi sono sempre da trattare, mentre in caso di isolamento di Coli, Staphylococcus aureus e patogeni minori la terapia ha scarsa efficacia, nel senso che l’esito (cronicizzazione o guarigione) è indipendente dall’uso dell’antibiotico. Infine la terapia antibiotica è priva di qualunque effetto nella mastiti causate da lieviti, funghi e Prototheca. Ecco, il merito dei test on farm è di riuscire ad associare qualsiasi caso di mastite a uno di questi tre modelli di intervento: se ci sono Streptococchi il veterinario tratterà, se ci sono lieviti, funghi o Prototheca il veterinario non tratterà, e in tutti gli altri casi il buiatra deciderà se trattare o meno”.

Qualora la terapia antibiotica sia necessaria, quali sono le classi di antimicrobici da privilegiare e quali invece le classi da limitare?
“La decisione spetta al medico veterinario. Il quale si orienterà prioritariamente su quelle molecole che non sono a rischio di resistenza batterica come le penicilline di base e le penicilline sintetiche, sempre che si dimostrino efficaci. Il veterinario eviterà dunque le cefalosporine di terza e quarta generazione, a meno che non siano le uniche a dimostrarsi efficaci”.

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Grazie ai test on farm realizzati sotto la supervisione del veterinario, oggi è possibile identificare quali sono i casi di mastite clinica da trattare
 

Care vecchie penicilline

Secondo i dati a vostra disposizione, quali sono attualmente i principi attivi che ancora funzionano?
“Dai numerosissimi antibiogrammi effettuati presso il nostro Istituto, la penicillina e i suoi derivati sintetici e semisintetici risultano ancora sensibili ad oltre la metà dei mastidogeni isolati nei nostri laboratori. Ma attenzione, più che preoccuparsi della scelta del principio attivo, l’allevatore dovrebbe seguire scrupolosamente l’intero protocollo terapeutico definito e prescritto dal veterinario aziendale, attenendosi non soltanto al principio attivo prescritto dal buiatra, ma anche alla dose e alla durata del trattamento. Quanti tubetti di quell’intramammario devo somministrare al giorno e per quanti giorni? Questa la giusta domanda da porsi”.

Dottor Bertocchi, ma l’antibiotico-resistenza è un fenomeno reversibile? È possibile sperare in un recupero di efficacia di alcuni antibiotici?
“I fatti dimostrano che per fortuna l’antibiotico-resistenza è un fenomeno reversibile e anche in tempi relativamente brevi, nell’ordine di mesi. Dagli studi effettuati è risultato che per stimolare questa reversibilità occorre ridurre/evitare l’uso di quell’antibiotico che ha stimolato il germe ad elaborare un nuovo sistema di antibiotico-resistenza e parallelamente usare quegli antibiotici che non stimolano resistenze batteriche. Più in generale occorre limitare la quantità di antibiotici utilizzati in azienda”. Il messaggio è forte e chiaro, adesso tocca agli allevatori.