Anche i bovini si ammalano di influenza aviaria (H5N1)

Gli uccelli selvatici sono uno dei principali serbatoi del virus

Salute animale

Anche i bovini si ammalano di influenza aviaria (H5N1)

I casi sono per ora concentrati negli Usa, ma il vero problema è che il virus passa nel latte, creando un potenziale allarme per la salute pubblica

 

Dallo scorso 25 marzo, giorno della prima diagnosi positiva, gli allevatori di vacche da latte degli Stati Uniti hanno scoperto di avere un nuovo nemico: l’influenza aviaria. Sì, la malattia che ha falcidiato milioni di uccelli selvatici, di polli da carne e di ovaiole in tutto il mondo, è oggi passata ai bovini.
Al momento sono 12 gli Stati interessati dal virus, con più di 100 mandrie positive trovate in Michigan, Idaho, Texas, Colorado, New Mexico, South Dakota, Kansas, Minnesota, Iowa, North Carolina, Ohio e Wyoming.
Nel bovino la malattia si presenta con sintomatologia molto variabile e con un periodo di incubazione che oscilla fra i 12 e i 21 giorni. Le vacche possono essere sintomatiche o asintomatiche, ma il virus si trova comunque in concentrazioni significative nel latte, aldilà dei sintomi.
Gli animali colpiti dal virus mangiano di meno, riducono significativamente la ruminazione, hanno scolo nasale, presentano un calo nella produzione di latte, sono spesso letargici, disidratati e con un’alterazione della temperatura corporea. Le feci possono presentarsi particolarmente molli. Nei soggetti colpiti in maniera severa il latte diventa molto concentrato, simile al colostro oppure la produzione di latte cessa del tutto.
Una classica “influenza”, ma il problema è che in linea teorica i bovini non avrebbero dovuto avere i recettori per il virus dell’aviaria, mentre a livello del capezzolo li hanno eccome, e anche piuttosto numerosi.

 

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L’utilizzo della pollina come alimento zootecnico è una delle possibili fonti di infezione al vaglio dei ricercatori

 

Epidemiologia incerta

La vera domanda è capire come abbia fatto il virus a contagiare le mandrie. La posizione ufficiale dell’Usda, il potentissimo Dipartimento dell’agricoltura Usa, vede gli uccelli migratori come fonte del virus. Tuttavia, le indagini fino ad oggi portate avanti comprendono anche alcuni casi in cui si è verificata la diffusione del virus associata agli spostamenti del bestiame tra le mandrie. Ma c’è anche un’altra opzione, al momento priva di conferme ufficiali e negata con forza dall’industria mangimistica, che riguarda l’impiego ad uso alimentare, legale in alcuni Stati americani, della pollina, un mix di feci, piume e materiale di lettiera, usato normalmente come fertilizzante, ma anche come mangime nei bovini, pratica non legale nell’Unione europea. La pollina viene utilizzata come mangime per i bovini perché è una fonte di proteine a buon mercato e un modo economico per smaltire i rifiuti.
La Food and Drug Administration (Fda) americana inizialmente ne scoraggiò l’uso come mangime nel 1967, ma annullò questo suggerimento nel 1980 dopo che furono condotte ricerche approfondite e lasciò la decisione ai singoli Governi statali. Quando gli Stati Uniti hanno segnalato il loro primo caso di encefalopatia spongiforme bovina – o malattia della mucca pazza – nel 2003, la Fda ha vietato temporaneamente l’uso alimentare della pollina, tuttavia, in seguito ha annullato questa decisione e ha invece vietato l’uso del cervello e del midollo spinale dei bovini nel mangime per polli.
Ovviamente l’industria mangimistica ribadisce che gli standard qualitativi, le procedure e le regole di polizia veterinaria impediscono a della pollina proveniente da un allevamento colpito da influenza aviaria di essere immesse nel circuito alimentare, ma il dubbio serpeggia fra gli operatori, in attesa di una risposta ufficiale.

 

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I casi di contagio umano riguardano il personale di stalla

 

Contagio umano

Ad aggravare il problema la notizia diffusa il 1° aprile dal Center for disease Control (CdC) di Atlanta, struttura federale per la salute pubblica, relativa al primo caso di passaggio del virus dalle vacche agli esseri umani in Texas, seguiti nel giro di qualche settimana da altri due casi in Michigan. In tutti e tre i casi i pazienti lavoravano come addetti di stalla in altrettanti allevamenti.
La sintomatologia umana rilevata in questi tre casi comprende congiuntivite (i recettori per il virus sono numerosi nell’occhio), sintomi respiratori, tosse, non sempre febbre. I pazienti sono stati isolati in casa e trattati con oseltamivir, un farmaco antivirale e le loro condizioni sono rapidamente migliorate.
Fine della storia? Affatto. Il vero problema è che il virus passa al latte, trasformando l’influenza aviaria in un problema di salute pubblica, visto il potenziale impatto del latte infetto sulla collettività. Fortunatamente la pastorizzazione elimina il virus, ma resta aperta la questione dei formaggi a latte crudo (vedi oltre) e delle modalità di diffusione del virus all'interno della stalla. Senza dimenticare l’impatto sui mungitori e sul personale di stalla, quotidianamente a contatto con il bestiame: il Cdc ha prontamente diramato indicazioni per la protezione del personale, tanto teoriche quanto inapplicabili, suggerendo anche di evitare il contatto con uccelli morti.

 

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Anche il CDC (Center for disease Control and prevention) di Atlanta si sta occupando della vicenda

 

Ruolo del seme bovino

Fra le mille domande resta anche quella legata alla sanità del seme bovino usato per la F.A., un aspetto che interessa anche i nostri allevatori, vista la mole di fiale made in Usa che entrano in Italia ogni anno.
Le uniche informazioni utili le abbiamo trovate in un documento ufficiale di St Genetics dove si legge: “il rischio di trasmissione dell’influenza aviaria H5N1 attraverso lo sperma bovino non è stato studiato. Finora non sono stati segnalati casi di virus A (H5N1) che abbiano infettato i tori, ma ciò non esclude la possibilità di infezioni sintomatiche o asintomatiche nei maschi. Date le limitate informazioni disponibili, non è ancora possibile valutare il rischio di infezione nei centri di F.A. Di conseguenza, le misure di biosicurezza volte a tenere il virus fuori dalla fornitura di sperma sono generiche e non possono garantire l’assenza di H5N1 nello sperma. In questo contesto, testare ogni singolo lotto di sperma è l’approccio migliore per garantire l’assenza di trasmissione di malattie attraverso l’inseminazione artificiale. Questa analisi è possibile utilizzando il test RT-qPCR. La strategia di testare ogni lotto di sperma mediante RT-qPCR è ampiamente utilizzata nella commercializzazione di sperma suino per evitare il rischio di trasmissione del virus PRRS. Strategie simili sono state utilizzate anche per il mercato internazionale dello sperma bovino quando il paese di origine presenta un rischio di infezione da virus Schmallenberg o virus della febbre catarrale”.

 

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La pastorizzazione inattiva il virus presente nel latte. Ancora in corso, in Italia, le sperimentazioni per misurare l'abbattimento del virus H5N1 nel processo di produzione dei formaggi a latte crudo stagionati

 

Indagini in corso in Italia

Nelle ultime settimane il Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie ha comunicato di aver messo a punto test virologici e sierologici per la corretta diagnosi dell’infezione da virus H5N1 ad alta patogenicità nei bovini. Lo stesso Istituto sta inoltre eseguendo un’indagine sierologica per verificare se nei territori italiani dove nelle precedenti stagioni si sono concentrati i focolai di influenza aviaria nel pollame e nei volatili selvatici vi sia stata un’esposizione dei bovini da latte al virus, mediante la ricerca di anticorpi specifici nel loro sangue. Gli oltre 3.200 bovini finora esaminati nelle province di Verona, Vicenza e Padova, hanno tutti dato esito negativo.
Parallelamente, l’Istituto zooprofilattico della Lombardia e dell’Emilia Romagna sta conducendo alcune sperimentazioni per misurare l’abbattimento del virus H5N1 ad alta patogenicità nel processo di produzione dei formaggi a latte crudo stagionati. I risultati preliminari indicano come già con la sola componente termica del processo si ottenga un deciso abbattimento della carica virale nel latte. La verifica del potere inattivante delle altre fasi di produzione (es.: giacenza sotto siero della cagliata, salagione, stagionatura) è ancora in corso.