Lo storytelling della sostenibilità

Attualità

Lo storytelling della sostenibilità

Nel computo delle emissioni di gas serra il mondo zootecnico incide solo per il 5,8% e negli ultimi 30 anni ha fatto giganteschi passi avanti in termini di efficienza per litro di latte o chilo di carne prodotta. Peccato che l’opinione pubblica ignori totalmente questi risultati

 

La sostenibilità? È anche una questione di “storytelling” e sotto questo profilo gli allevatori sono rimasti alla preistoria, mentre il resto del mondo si è molto impegnato nell’imparare a comunicare i valori della sostenibilità, senza (a volte) troppo soffermarsi sulla realtà dei fatti. Chi ha un brand da difendere è il primo a essere interessato a far emergere i lati positivi del proprio impegno per l’ambiente e la società, mentre chi è “unbranded”, cioè senza un brand da proteggere fatica molto di più a far valere le proprie ragioni, giuste o sbagliate che siano. Il risultato? Da un punto di vista mediatico gli allevatori sono cani sciolti, troppo spesso liquidati dalla società come “brutti, sporchi e cattivi”, perché sfruttano gli animali, inquinano l’ambiente e vivono in un mondo arcaico e troppo intensivo.

 

Lotta alla fake news

Basta che il solito blogger o l’attivista di turno lancino sui social il proprio personalissimo “scoop” contro gli allevamenti per generare migliaia di like, contribuendo a trasformare in verità assolute informazioni errate e prive di valenza scientifica. Un esempio fra tutti: vogliamo parlare dei 15mila litri di acqua necessari per produrre 1 kg di carne bovina? Una fesseria gigantesca, peccato che nella coscienza collettiva sia diventato un dato difficilmente confutabile. Occorrono infatti pochi secondi per scrivere un titolo di giornale o un post su Instagram sparando fake news, ma è terribilmente più difficile e complesso raccontare la verità. In questo caso occorrerebbe infatti spiegare il concetto di “water footprint” (l’impronta dell’acqua), introdurre il nostro interlocutore al fatto che l’acqua non è tutta uguale, ma che i ricercatori parlano di tre tipi di acqua:

green water” = l’acqua di origine piovana;

blue water” = l’acqua superficiale o sotterranea;

grey water” = l’acqua impiegata per disinquinare gli effluenti e riciclarli.


Inquadrato il problema in questi termini, andrebbe spiegato che i ricercatori tolgono dai conteggi l’acqua verde, che sostanzialmente ritorna in circolo, mentre si concentrano sull’acqua blu, che è quella realmente critica nei cicli produttivi zootecnici e d’incanto scopriamo che per produrre quel famoso chilogrammo di carne di litri d’acqua ne bastano dai 550 ai 700 (comprensivi di acqua blu e grigia). Ma ci sarebbe da citare anche l’Inra, il celebre ente di ricerca per il settore agricolo francese, che stima in soli 50 litri il consumo di acqua blu per kg di carne bovina prodotta. Chiaro no? Peccato che in una società che legge a malapena i titoli dei giornali o dei post, spiegare un concetto così complesso sia una sfida persa in partenza. Ma l’importante è che gli allevatori (e i loro rappresentanti nei tavoli internazionali) conoscano questi dati perché la battaglia per la sostenibilità passa anche da questi numeri.

 

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Parla la Treccani: locuzione inglese (lett. notizie false), entrata in uso nel primo decennio del XXI secolo per designare un’informazione in parte o del tutto non corrispondente al vero, divulgata intenzionalmente o inintenzionalmente attraverso il web, i media o le tecnologie digitali di comunicazione, e caratterizzata da un’apparente plausibilità, quest’ultima alimentata da un sistema distorto di aspettative dell’opinione pubblica e da un’amplificazione dei pregiudizi che ne sono alla base, ciò che ne agevola la condivisione e la diffusione pur in assenza di una verifica delle fonti

 

Diamo i numeri

Sempre per tornare sui “fondamentali”, vorremmo riprendere il delicato tema delle emissioni di gas serra e la loro ripartizione per settore produttivo, invitandovi a ritagliare il grafico 1 e di metterlo nel portafoglio, in modo che possiate farlo vedere al solito sedicente esperto che, prima o poi, accuserà voi e la vostra mandria di essere la feccia del mondo perché inquinate più di un’acciaieria cinese.

Due numeri facili da ricordare: l’agricoltura, la forestazione e gli altri diversi usi dei terreni (nello slang degli statistici “Afolu” = Agriculture, forestry & other and use) pesano per il 18,4% delle emissioni di gas serra e di questa quota il settore zootecnico e i reflui da esso prodotti incidono per il 5,8%. Quindi il mondo zootecnico ha certamente le proprie colpe, ma queste rappresentano “solo” il 5,8%, tatuatevelo sulla pelle. Non è certamente una quota risibile, ne siamo consapevoli, ma almeno quando sentirete le solite fake news potrete controbattere su solide basi statistiche.

Altrettanto innegabile, anche se dobbiamo convivere in un mondo in cui la nostra stessa aria viene respirata da “terrapiattisti”, che il pianeta si stia surriscaldando e che dal 1850 (anno in cui si iniziano ad avere registrazioni scientifiche di questi dati) al 2020 la temperatura media si sia innalzata di 1,2 °C, con un pericoloso intensificarsi di eventi estremi (siccità, alluvioni, tempeste, incendi e altre amenità).

 

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Grafico 1: Emissioni di gas serra ripartite per settore produttivo

 

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Fra le fake news più diffuse nell’opinione pubblica il fatto che occorrano 15mila litri di acqua per produrre 1 kg di carne bovina

 


I rutti pesano

I gas serra giocano un ruolo determinante in questo processo e gli allevatori di ruminanti non possono tirarsi indietro, visto che le fermentazioni enteriche, rutto più o rutto meno, pesano per il 39% delle emissioni non CO2 dell’agricoltura. Su questi dati, di cui dobbiamo avere piena consapevolezza, vediamo come sviluppare il tema della sostenibilità e confutare la posizione dei soliti estremisti che vorrebbero chiudere le stalle e mandare le vacche al pascolo (dove?) per risolvere in un colpo solo il problema del benessere animale e delle emissioni, un’utopia distopica, che può trovare adepti solo sotto fra i cultori di un’agricoltura arcadica.

La realtà è invece molto diversa e, anche se all’opinione pubblica e a molti ambientalisti potrà sembrare una bestemmia, 1 vacca che produce 100 quintali di latte inquina molto meno di 5 vacche che producono 20 quintali a testa. Punto e basta. E se il vostro interlocutore continuerà a menarla con l’utopia dell’estensivizzazione siete autorizzati a diventare meno politically correct, perché a volte l’esercizio della democrazia porta seri danni, specialmente se la collettività è di un’ignoranza disarmante in tema di zootecnia, ma ha il potere di condizionare negativamente la vita degli allevatori inducendo il legislatore a creare norme che hanno come unico obiettivo quello di soddisfare l’elettorato (sulla pelle degli altri).

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In termini di marketing quanto vale per il consumatore acquistare un prodotto alimentare certificato “emissioni zero”?

 

Siamo bravi, diciamolo

Lasciamo da parte le polemiche e torniamo ai numeri, paragonando l’impatto di una vacca da latte di 30 anni fa (42 quintali di media/anno), di 5 anni fa (72 quintali di media/anno) e spingendoci sino al 2030 quando avremo medie nazionali a cavallo degli 86 quintali, con punte nelle stalle specializzate di oltre 150 quintali. Se prendiamo la carbon footprint del 1990 come pietra di paragone e fissata a 100, nel 2018 l’impronta di carbonio era scesa al 69%, nel 2030 si sarà ridotta al 61%, valore che nelle super-stalle sarà del 27%. Per cui di passi avanti in termini di genetica, alimentazione di precisione, benessere, salute animale e tecnologia in genere, ne sono stati fatti infiniti ed è tempo di proclamarlo a gran voce.

C’è anche un altro aspetto sul quale in letteratura si trovano dati incontrovertibili: chi impatta meno guadagna di più, quindi iniziamo a sovvertire il pensiero che sostenibilità ambientale ed economica siano due mondi separati. Chi ha una carbon footprint (Cfp) pari a 2 per litro di latte prodotto potrebbe guadagnare per vacca/anno poco meno di 600 euro contro i 2.400 di chi ha una Cfp di 1. Quindi, detta in altri termini, producendo in maniera intensiva avremo un impatto ambientale per kg di prodotto (latte o carne che sia) nettamente inferiore al sistema estensivo.
Questi sono i fatti, poi possiamo ragionare su altri piani passando dall’etica (è giusto che l’uomo asserva gli animali a suo uso e consumo?), alla nutrizione (mangiamo troppa carne? L’uomo è adatto o meno a consumare latte da adulto?), alle questioni ambientali (senza zootecnia il riscaldamento del pianeta si ridurrebbe?), ma i dati della scienza parlano chiaro.

 

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Intensificare la produzione significa avere meno emissioni per litro di latte prodotto

 

Lotta al metano

Allo stesso modo in cui, parlando di lotta al metano, di cui i bovini e i ruminanti in genere, sono grandi produttori, scopriamo che oggi, grazie alla ricerca scientifica e agli additivi che sono a disposizione dei mangimisti, si potrebbero teoricamente abbattere le sue emissioni di almeno il 30%, arrivando al 60% se si utilizzassero più integratori insieme. Non è fantascienza, sono prodotti commerciali già presenti sul mercato o prossimi alla loro commercializzazione. Senza parlare del lavoro dei genetisti per selezionare animali più efficienti a livello alimentare e capaci di avere emissioni ridotte. La vera domanda è un’altra: quand’è che la filiera agroalimentare inizierà a riconoscere agli allevatori i loro sforzi per impattare sempre meno a livello ambientale e diventare più sostenibili? Sotto questo profilo siamo ancora in alto mare, ma c’è fermento e, in ogni caso, la strada è questa e non si torna più indietro.
State certi che la Vecchia Europa farà di tutto per essere proattiva nel dare una mano al Pianeta. Che, lo ricordiamo, è l’unico che abbiamo: per cui che ognuno (ma davvero tutti) faccia la propria parte.

 

Ringraziamenti
Molte delle informazioni che abbiamo riportato in questo articolo derivano da un lavoro di Giuseppe Pulina, Professore ordinario di etica e sostenibilità degli allevamenti all’Università di Sassari e dedicato alla sostenibilità climatica delle filiere lattiero-casearie. Un’infinità di dati davvero complessi e destinati al pubblico della comunità scientifica, che abbiamo semplificato e sintetizzato, cercando di non alterarne il significato. Volevamo quindi ringraziare Pulina per il suo contributo prezioso alla comprensione di un tema così delicato e complesso, ma al tempo stesso desideravamo assolverlo dalle eventuali imprecisioni che la sintesi giornalistica può aver generato, ascrivendole esclusivamente all’autore dell’articolo che state leggendo.