Salute animale
L’influenza aviaria corre veloce e non va sottovalutata
Il problema oggi è globale e riguarda non più solo gli uccelli selvatici, ma decine di specie animali, vacche e umani compresi. Ne abbiamo parlato con Ilaria Capua, virologo e medico veterinario
L’influenza aviaria un tempo era un problema solo per gli uccelli e, non a caso, nei manuali era definita una patologia “sporadica e autolimitante”, due caratteristiche che la rendevano interessante per i ricercatori ma, di fatto, poco impattante sulla collettività.
Poi, negli anni, ha iniziato a colpire pesantemente in giro, causando danni gravi all’avicoltura industriale di diversi Paesi, Italia compresa.
Ma ha anche colpito (soprattutto il virus H5N1) la specie umana, contagiando nel periodo 2003-2020 (dati Oms) 862 persone, con 455 casi letali. La novità del 2024 è il contagio dei bovini, specie che non si riteneva interessata dal virus influenzale vista la mancanza dei recettori Alfa2-3, indispensabili per la replicazione efficace del virus. Un cambio di rotta che ha messo in allarme i virologi di tutto il mondo, aprendo le porte a scenari da valutare con estrema attenzione.
Argomento delicato sul quale abbiamo chiesto un parere a Ilaria Capua, veterinaria e virologa, una delle massime esperte mondiali di influenza aviaria, una professionista della salute pubblica con una lunga esperienza negli Stati Uniti che l’hanno vista lavorare anche al CDC di Atlanta, il centro governativo statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie.
Dopo una lunga permanenza negli Stati Uniti, oggi Ilaria Capua è tornata in Italia ed è Senior Fellow of Global Health presso la Johns Hopkins University - SAIS Europe, nonché Courtesy Professor e direttore emerito del One Health Center of Excellence dell’Università della Florida
Sorpresa per tutti
“Il passaggio ai bovini – spiega Capua – ha colto i virologi di sorpresa perché i virus influenzali dei Mammiferi usano i cosiddetti recettori Alfa2-6, mentre quelli degli uccelli impiegano i recettori Alfa2-3, e questo spiega anche il fatto che l’influenza aviaria contagia sì anche l’uomo, ma non ha mai causato episodi di trasmissione inter-umana, ovvero del virus da uomo e uomo. Per cui la comunità scientifica era sostanzialmente tranquilla, sino a quando si è scoperto che anche i bovini presentano recettori Alfa2-3 a livello del dotto del capezzolo, lasciando una porta aperta al virus. Si solleva così anche un problema di salute pubblica perché nel latte munto da soggetti infetti è presente il virus che, fortunatamente, la pastorizzazione riesce ad eliminare”.
Resta però da capire come la malattia si sia diffusa in diversi Stati americani, alcuni dei quali non confinanti e distanti migliaia di chilometri fra di loro. E qui le certezze vacillano ma le ipotesi più accreditate sono un paio. “Non lo si sa ancora con certezza, anche se, oltre alla contaminazione causata dalle feci degli uccelli e degli uccelli migratori in particolare – continua Capua – si sta parlando spesso di un rischio causato dall’utilizzo della pollina in alimentazione animale, come fonte azotata, una pratica ammessa in molti Stati americani. Ma se della pollina contaminata dal virus influenzale fosse entrata nel circuito alimentare, questo significherebbe che le buone pratiche e i controlli veterinari di una delle realtà più avanzate al mondo avrebbero pesantissime falle da giustificare”.
Falla imbarazzante?
Anche perché, in caso di allevamento infetto, tutti gli animali e tutti i materiali provenienti dall’allevamento (pollina inclusa) devono essere distrutti e non possono a nessun titolo essere avviati alla catena alimentare, animale e umana. Non siamo in un wet market orientale, ma nella principale economia mondiale e questi errori non sono ammessi. “Se penso alle politiche di prevenzione per scongiurare l’ingresso di patogeni vigenti negli Stati Uniti – commenta Capua – i controlli severissimi alle frontiere anche sul bagaglio dei viaggiatori e sugli alimenti che le persone trasportano con sé, mi sembra una falla troppo grande per essere vera, ma il dubbio c’è. Senza dimenticare che, se la pressione infettante degli animali selvatici fosse realmente così elevata da infettare decine di stalle in giro per il Paese, ci troveremmo di fronte ad un problema gravissimo da affrontare a livello globale”.
Domande aperte
C’è poi da capire come si è diffuso il virus da un animale all’altro nelle stalle. Con la mungitura? Con il contatto umano? Con il contagio respiratorio da bovino a bovino? “Anche qui di certezze ce ne sono poche – spiega Ilaria Capua – e faccio fatica ad immaginarmi che una vacca mangi del foraggio contaminato da feci cariche di virus provenienti da uccelli infetti, feci che vengono ingerite, passano dal rumine, danno una viremia e poi infettano l’animale. Ci sono i recettori per il virus nell’apparato digerente? È possibile che il virus passi al seme dei riproduttori e che il materiale seminale diventi un potenziale veicolo del virus? Sono domande ancora aperte alle quali occorrerà dare una risposta, nella consapevolezza che, per fortuna, quello dell’influenza aviaria è un virus abbastanza fragile e con una leggera disinfezione viene eliminato”.
Ma basta il lavaggio dell’impianto di mungitura, così come è effettuato oggi, per inattivarlo? È tutto da verificare. “Da qualunque parte la si guardi – continua Capua – è un pasticcio colossale, anche perché al momento le mandrie positive non vengono abbattute, ma si mettono sotto controllo sanitario, verificando dopo 30 giorni se sono ancora positive o se sono diventate negative, lasciando di fatto in circolazione un potenziale serbatoio di virus. In una situazione analoga in campo avicolo ci sarebbe l’abbattimento di tutti i capi. Perché con i bovini non accade? Senza dimenticare che la sintomatologia nelle vacche è lieve e potrebbe sfuggire all’attenzione dell’allevatore e del veterinario, creando un vero problema di salute pubblica, non solo nei confronti degli operatori, alcuni dei quali sono stati già infettati dal virus e hanno manifestato una forte congiuntivite (sull’occhio umano si trovano i recettori Alfa2-3: ndA), ma su scala ben più grande. E sono davvero meravigliata dal silenzio che c’è su questo argomento ad ogni livello. Temo che si stia prendendo tempo, visti gli interessi in gioco”.
C’è poi un altro aspetto che a livello epidemiologico non è secondario. Stiamo parlando “degli invisibili”, cioè delle migliaia di clandestini di origine latino-americana che lavorano nelle stalle statunitensi, privi di qualsiasi assicurazione sanitaria. Persone che in caso di infezione potrebbero sparire nel nulla, magari tornando dalle proprie famiglie in Costa Rica, Nicaragua, Messico o Honduras e contribuendo così alla diffusione del virus.
La centralità delle misure di biosicurezza in stalla torna nuovamente al centro della discussione
Problema sottostimato
“Le variabili in gioco sono tante e tutte da verificare – spiega Ilaria Capua – a cominciare da come la bovina reagisce al virus, comprendendo con esattezza quando inizia ad essere viremica, fase delicatissima perché l’escrezione del virus in quel momento potrebbe avvenire non solo con il latte. Detto ciò, occorre stigmatizzare un aspetto non meno grave. Il vero problema è che abbiamo tutti lasciato correre l’influenza aviaria, patologia che rispetto a 20 anni fa è totalmente diversa e non è più né “sporadica”, né “autolimitante”. La diffusione del virus H5N1 è globale: nonostante questo, in questi anni si è scelto di non vaccinare, anche se nel tempo ci siamo trovati di fronte ad una malattia endemica o epidemica, contro la quale non sono stati presi provvedimenti che non fossero quelli dello stamping out. Nel frattempo, però, il problema è esploso negli uccelli selvatici e oggi in tutta la costa del Sudamerica ci sono montagne di pellicani e pinguini morti a causa dell’influenza aviaria: non dobbiamo più meravigliarci se troviamo il virus nelle volpi, negli orsi polari, nei mammiferi marini, nei visoni o nei gatti. È la prova tangibile – conclude Ilaria Capua – degli errori e della superficialità con cui questa malattia è stata trattata, senza prendere alcuna decisione”.
La partita è ancora tutta da giocare ma l’errore peggiore, come insegnano le recenti pandemie, è perdere tempo, negare le evidenze e nascondere le responsabilità. Il giorno in cui l’influenza aviaria verrà trasmessa da uomo a uomo, il Covid sembrerà una fesseria.